Il Vintage: un modello di partenza per la creazione di Stone Island e C.P. Company
La parola vintage nell’immaginario comune rimanda ad oggetti del passato dotati di una certa aura di mistero e di unicità: mistero per chi è troppo giovane per averli utilizzati e, fonte di grande orgoglio ed ispirazione per coloro che quegli oggetti li hanno desiderati, vissuti e li rievocano come un felice ricordo d’infanzia.
Negli ultimi anni questa passione per il passato, una vera e propria forma di nostalgia, ha colpito un po’ tutti, dagli adulti ai giovanissimi; iniziando dalla moda e passando dal cinema, la musica e l’interior design, si sono ripresi degli elementi dei decenni passati, che improvvisamente ritornano in auge in una forma nuova per adattarsi alle necessità del tempo presente, acquistando così nuovi significati.
I Millenials sono letteralmente rapiti da quegli oggetti, spesso sconosciuti e ripescati dagli armadi dei genitori, stravaganti perché privi di connessione ad Internet e con tasti di proporzioni considerevoli, ma allo stesso tempo molto affascinanti. Non è un caso che la Polaroid sia stata recuperata dall’oblio e rimodernata con l’aggiunta delle ultime tecnologie.
I significati culturali intrinseci di determinati prodotti vengono attribuiti dalla società del tempo, nascono certamente per colmare un’esigenza, ma al momento della creazione non sono ancora icone, piuttosto nell’immissione sul mercato potrebbero subire delle trasformazioni o essere adottati da un pubblico inaspettato.
È il caso del creativo Massimo Osti, produttore di numerosi marchi tra cui C.P. Company e Stone Island, che viene annoverato tra i creatori dello sportswear; nei primi anni ’70, nel suo laboratorio di Bologna, inizia a creare capi rivoluzionari rispetto all’offerta di mercato.
I suoi prodotti sono frutto di ricerca e sperimentazione dei materiali, che vengono trasformati, ricreati, mixati tra loro in combinazioni sorprendenti, come la Tecno Wool, lana tessuta con fibre metalliche che permettevano al capo di avere una durata maggiore, o il Thermojoint, dalla tenda della doccia in Pvc al giaccone firmato Stone Island.
Oggi la maggior parte delle sue creazioni sono conservate nell’archivio di Bologna, un luogo magico in cui pochi hanno il privilegio di entrare; sono esposti sia i suoi prodotti sia esemplari di tute da lavoro di ogni tipo: dalle divise militari, a quelle degli astronauti ma anche di operatori ecologici ed idraulici. Erano proprio gli abiti da lavoro contemporanei o del passato ad ispirare Osti, che per creare qualcosa di nuovo torna indietro nel tempo; è lui stesso il primo ad attingere al vintage e donargli nuova vita in chiave moderna.
Le sue collezioni sono rivolte soprattutto ad un pubblico adulto, ma con la nascita della subcultura consumistica per eccellenza dei Paninari a Milano, la Stone Island entra a far parte dei brand più sfoggiati da questi ragazzi, attentissimi a seguire l’ultima moda; Osti di certo non si sarebbe mai aspettato il successo tra i giovanissimi, tanta popolarità è dovuta al fatto che ci troviamo davanti ad una subcultura che non contesta il mondo degli adulti ma ne ricerca l’accettazione.
Le stesse giacche spopolano in Inghilterra, dove i ragazzi che frequentano assiduamente lo stadio trovano in questi abiti la comodità e la praticità adatta al loro stile di vita, infatti Osti non lascia nessun dettaglio al caso, ogni elemento è studiato per avere una funzione pratica. Così, attraverso alcuni rivenditori Stone Island e C.P. Company vengono adottati da un’altra subcultura: la Casual Culture.
Alla base dell’idea di design di Massimo Osti, c’è la risposta al perché ancora oggi si indossano quelle giacche; un capo non deve essere soggetto al cambiamento della moda, deve essere di buona manifattura così che possa rimanere nell’armadio per vent’anni senza subire i danni del tempo ed essere indossato senza risultare fuori moda.
La grande sperimentazione, la ricerca dei materiali e della funzionalità sono stati essenziali per il successo di questi due marchi e giustificano in qualche modo il fatto che tra gli espositori del vintage questi abiti sono presenti e, a conferma dell’assunto di Massimo, sono ancora estremamente attuali.
Così quando si attribuisce ad un capo d’abbigliamento, ad un vinile, ad una videocassetta l’aggettivo vintage questo sta ad indicare la ricerca e lo studio che c’è stato dietro alla sua creazione; è un’esigenza profonda quella di ritrovarsi a contatto con il passato, l’individuo vede infatti riconfermata la sua identità e specialmente nei momenti di crisi sociale significa ritrovare qualcosa di familiare e sicuro.
Articolo di Giorgia De Luca